Il sangue è ancora caldo, di odore acre e di un rosso cupo, le impregna i
capelli e le scende lungo il collo, sulle spalle, lungo il resto del corpo. La
capra e la gallina sono morte quasi subito; la ragazza tiene gli occhi chiusi per
difendersi, si barrica dietro le palpebre, ma è difficile restare intatta,
anche attraverso gli occhi chiusi le si insinua nel cervello l’immagine di
quella stanza adorna di stoffe bianche e rosse in cui l’hanno portata, le
statuine del jujù a braccarla tutte intorno, giù in fondo allo stomaco una
soggezione sorda verso l’uomo che sta danzando attorno a lei, che la rende
totalmente inerme. Barcolla, la tunica bianca che le ricopre il corpo nudo è
sempre più imbrattata di sangue, le pareti della stanza le incombono addosso,
ruotano inesorabilmente non appena socchiude gli occhi; ha ancora in bocca il
gusto penetrante di alcool e della noce di cola, l'intruglio con cui ha dovuto
trangugiare il cuore della gallina. L'uomo è il native doctor, nome elegante di
uno degli stregoni di Uwasota, Benin City, Nigeria. Il vecchio pratica il rito
dell’Ayelala, una divinità considerata dispensatrice di giustizia e custode
della moralità. Le fa giurare solennemente obbedienza, la pena è la sua stessa
vita. Si deve fare prima di partire, glielo ha detto Mama Brady. Il vecchio
ripete ossessivamente formule antichissime, e minacce di morte. Le asporta un
ciuffo di capelli, dei peli pubici, parti di unghie delle mani e dei piedi.
Ormai sono suoi, come la sua anima.
La chiamerò Zemira. Seduta sull’autobus, guarda la terra della Nigeria, che
vende le sue figlie ogni giorno, scorrere fuori dal finestrino. Viaggia da più
di due ore, poche, nell’economia del lunghissimo viaggio che le cambierà la
vita per sempre. Mama Brady le ha chiesto alcune foto per il passaporto, ma lei
non l’ha visto, e non lo vedrà mai. Piccola e minuta, un viso dolcissimo,
ventidue anni, la scuola secondaria interrotta per la morte del padre, una
madre che di tanto in tanto vende biscotti e caramelle per la strada, in alcune
ceste sull’onnipresente, polveroso sterrato che affianca l’asfalto delle vie
dell’Africa. Zemira ha imparato ad acconciare i capelli; Mama Brady, una delle
clienti abituali del negozio, le ha proposto un lavoro di parrucchiera in
Italia. La metterà in contatto con una parente a Torino; Susan, così si chiama,
dovrà essere pagata, ovvio; la cifra in naira, la moneta nigeriana, è
accettabile; Zemira non sa che fa da paravento alla somma reale, sessanta mila
euro, una cifra elevata, commisurata alla sua bellezza. Quando arriva a Kono,
nel nord, al confine con il Niger, è il 17 luglio.
Un altro autobus, e il primo contatto telefonico con Susan. In Niger,
Zemira trova un uomo ad attenderla al capolinea; la conduce in una casa dove ci
sono altre cinque ragazze nigeriane. Mangia e dorme, poi il viaggio riprende,
ancora in autobus, poi una jeep. L’ultimo tratto è a piedi, senza cibo né
acqua; una delle altre ragazze muore, il cadavere viene lasciato lungo il
ciglio della strada, sempre sullo stesso sterrato, su cui ce ne sono anche
altri, abbandonati tra i cespugli. Quando varcano il confine libico è passato
oltre un mese. Il “trolley”, cosi' chiamano l’accompagnatore, le lascia in una
“connection house”, a un altro uomo che procura loro il cibo e le tiene
lì tre mesi, in attesa che Susan invii i soldi per il loro trasferimento
(circa ottomila Euro se il viaggio sarà in aereo, la metà se via mare, a
coprire spese che comprendono anche la corruzione di molti funzionari di
ambasciate, aeroporti, posti di controllo). Senza soldi né documenti, Zemira
attende. A dicembre inoltrato, in piena notte, l’uomo le dà cinquanta Euro (che
lei vede per la prima volta e di cui non conosce il valore) e la porta via, verso
il mare.
E’ poco più di un canotto a motore, e Zemira ci passa tre giorni, in mare
aperto. Il centro di accoglienza a Lampedusa la ospita ventiquattr’ore, poi lei
se ne va, si fa prestare un cellulare e chiama Susan. Deve comprare un
biglietto ferroviario per Genova e poi Torino. L’incontro è a Porta Nuova.
Susan la porta a casa, sembra gentile. La sera dopo le due donne prendono un
treno in direzione Trofarello. Una volta scese, camminano per un po’, si
avvicinano a un distributore di benzina. Susan si assicura che Zemira impari il
percorso. Poi glielo dice… Quella sarà la sua postazione, deve indossare la
minigonna e gli stivali, correre dietro alle auto e mostrare il seno, se si fa
toccare un po’, mentre contrattano, il prezzo può salire… Dieci Euro per un
rapporto orale, se è brava e usa la fantasia può chiedere di più. Le mostra
come usare il preservativo, le insegna a distinguere le banconote in base al
colore, quella grigia da cinque Euro non deve mai essere accettata. Poi, la
lascia lì e se ne va.
Quella vita dura tre mesi. Tutti i giorni, al mattino presto, dopo il
lavoro notturno, Zemira torna a casa, mangia un boccone e poi prende il treno
per Como, dove l’aspetta un’altra postazione per le ore diurne. Così anche la
domenica. Intanto, Susan si è svelata per quello che è, per quello che il
lavoro l’ha fatta diventare: sospettosa e ossessiva, talvolta la fa controllare
dalle altre ragazze, chiude a chiave la dispensa quando esce, la costringe a
fare anche le pulizie, e vuole trecento Euro d’affitto oltre a tutti gli
incassi. La tiene sotto scacco col jujù esattamente come hanno fatto con lei,
prima, durante i quindici anni passati sulla strada; poi Susan ha fatto carriera,
d’altra parte le possibilità non sono molte: o ti ribelli, meglio subito, ma devi
scappare e nasconderti, rischiando la rappresaglia per te e la tua famiglia in
Nigeria; o ti rassegni, e allora è meglio fare il mestiere alla grande, essere
scaltre, stringere i denti e lavorare intensamente, pagare il debito più
in fretta possibile e poi magari passare a gestire le altre, quelle nuove;
Susan sta inviando i soldi a casa per mantenere i due figli
all’università….. La notte per Zemira è il momento peggiore: a
volte i clienti vanno oltre, la picchiano, le segnano il corpo con un coltello;
quando subisce una rapina con la pistola, trova la forza di chiudere, e scappa.
Telefona a un ragazzo nigeriano conosciuto in stazione, e si rifugia a casa
sua. Dopo pochi mesi resta incinta. All’inizio non sembra un problema, ma poi
lui sparisce. Zemira ricorda di averlo sentito parlare di Parigi con gli amici;
ci va in treno, chiamandolo insistentemente al cellulare, senza mai avere
risposta. Vaga alcuni giorni, fino a quando la Polizia francese non la ferma,
controlla i documenti che citano una richiesta di asilo politico in Italia e la
sistemano su un treno che torna a Torino. Non sa dove andare, non mangia da
giorni, sale sul primo treno che passa, ma senza biglietto, e il controllore la
fa scendere a Vercelli. Si siede nella sala d’aspetto della stazione, e finalmente
perde i sensi. In ospedale, alcune ragazze di una onlus, tra cui una nigeriana,
le offrono aiuto.
L’Ispettrice Capo della Polizia Municipale muove velocemente le dita sulla
tastiera del computer; scorre con gli occhi le parole inanellate sulla carta,
ci vede solo dolore, si chiede come sarebbe stata la propria vita, se fosse
nata a Benin City. L’interprete continua a tradurre stati d’animo devastanti,
circostanze che non sfiorano nemmeno la vita di un’italiana, dinamiche di paesi
che sono riserve di caccia, di ragazze che sono le schiave dell’era moderna. In
Italia le vittime di tratta degli esseri umani sono tra le 19.000 e le 26.000,
la metà nigeriane, i clienti sono circa nove milioni. Zemira, lo stato di
gravidanza all’ottavo mese, visibilissimo, ha rovesciato fuori tutto
l’orrore, che non riesce ad essere espresso dalle frasi asettiche del
linguaggio giuridico, e scuote a fondo la sensibilità della donna in
divisa che le siede di fronte, e le resterà dentro a lungo, vicino a quello che
fa più male: il senso di impotenza per una realtà che va al di là delle sue
possibilità di azione.
“Chiedo alla competente autorità italiana di poter utilizzare i benefici
previsti dalla legge per chi si sottrae ai condizionamenti dei criminali che
sfruttano l’altrui prostituzione. Dichiaro a tal fine che è mia ferma
intenzione inserirmi nel tessuto sociale italiano, regolarizzando la mia
posizione nel rispetto della legge italiana. Accuso la cittadina nigeriana da
me conosciuta con il nome di Susan, di aver approfittato della mia situazione
di inferiorità e di necessità per costringermi, con violenza e abuso di
autorità, a prestazioni sessuali dalle quali ha ricavato non meno di 20.000
Euro. Pertanto, chiedo che costei venga perseguita a norma di legge e dichiaro
di essere disposta a rispondere a tutte le domande che gli inquirenti vorranno
farmi per chiarire ulteriormente fatti e circostanze riferite nel presente
verbale. Chiedo, inoltre, ai sensi delle vigenti leggi contenute nel codice di
procedura penale, di essere informata nel caso in cui il Pubblico Ministero
dovesse presentare al Giudice richiesta di archiviazione del procedimento
penale di cui alla presente. Null’altro da aggiungere o modificare, ed in fede
a quanto dichiarato mi sottoscrivo.”
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