“Il corpo faccia quello che vuole. Io non sono il corpo, io sono la mente.” Rita Levi Montalcini
Normalissima, di statura stancamente media, senza slanci di
particolare pregio estetico. Se paragonata a quella fanciulla lunga 1.80
andando approssimativamente per difetto, dagli occhi blu e i capelli neri
(connubio a dir poco letale), allora la situazione precipita e raggiungo
un’infima posizione di classifica, con vuoti incolmabili anche con l’intervento
di sette chirurghi plastici in associazione a delinquere… Giornata durissima,
quasi da pianificazione del suicidio, se possibile indolore. E’ successo alcuni
anni fa e porto ancora le ferite dentro. Come utente di sesso femminile in
visita ero decisamente una minoranza oppressa, spersa tra tutti quegli uomini
accorsi nella stanza giochi dei maschi tra le più affollate del mondo, il
Salone Internazionale della Moto di Milano, l’idea peggiore in merito a tempo
libero e curiosità varie che mi sia balenata in mente negli ultimi dieci anni.
Ovunque, attorno, esemplari di femmine di somma bellezza, corpi scultorei
sormontati da visi perfetti e avvolti in mise decisamente minime: gonne
ascellari, corpetti trasparenti, tacchi superlativi e instabilissimi. La più
cospicua adunata di “gran gnocche” cosmiche nel giro di diecimila miglia. Non
tutte erano italiane; mi chiedevo con quali sogni fossero approdate in Italia,
quante magari fossero laureate, cosa avessero in quelle belle testoline (non
credo affatto che le belle donne siano sempre oche come recita lo stereotipo); mi domandavo anche se mai qualcuno si fosse preoccupato di esplorarle, quelle testoline.
L’essere così belle è una grande fortuna; nessuno riesce a evitare di essere
affascinato da un bell’aspetto, maschile o femminile che sia; poi, però,
dopo il mancamento estatico di alcuni secondi dovuto alla visione paradisiaca,
la reazione mentale si dirama in variegati rivoli psicologici che di positivo hanno spesso poco, tra cui spicca una clamorosa invidia; qualunque cosa quella donna otterrà, la nostra mente sarà
portata a collegarla solo ed esclusivamente alla sua carrozzeria
superlativa; difficilmente saremo disposti a verificare se la
persona è veramente una rovinosa, insignificante sbatticiglia, oppure ha
anche altre doti che la rendono competente per quel certo posto; ho
sentito maschi lamentarsi per il presunto trattamento di favore riservato
a candidate femmine a causa di doti fisiche che loro stessi, in qualunque
altro frangente, avrebbero tenuto per primi in somma considerazione (chi
di spada ferisce, di spada perisce…?). So che a prima vista sembra
impossibile, ma facendo uno sforzo di ragionamento sovrumano, concluderei
che la bellezza può a volte essere un fardello scomodo, per una donna che
ha anche altre doti e magari non vuole fare per forza la modella. E se il
bellone di turno è un maschio? Gli uomini più difficilmente sono colpiti
da invidia verso un altro uomo, addestrati come sono sin da piccoli a
puntare su altre doti per farsi strada nella vita.
E le donne
brutte? Beh, qui il quadro è facile, disadorno, addirittura miseramente scarno: le brutte spesso sono condannate a non essere filate di pezza
neanche se geniali; riescono a farsi notare qualche volta, dopo performance
degne di un oscar, soltanto quelle estremamente simpatiche, oppure quelle che
si danno fuoco, come diceva la Littizzetto.
Aggirandomi tra gli stand del salone, a un certo punto ho cominciato ad osservare anche l’altra metà del cielo: gli uomini.
Aggirandomi tra gli stand del salone, a un certo punto ho cominciato ad osservare anche l’altra metà del cielo: gli uomini.
Uno spettacolo
senza uguali, direi. La maggioranza assolutamente poco interessata alle moto,
ringalluzzita e psichicamente in solluchero, vagava in visibile mestizia per il
fatto di essere stata dotata di due soli bulbi oculari, in quel
frangente piuttosto insufficienti. Al termine del prostrante pomeriggio,
la mia personale statistica dava i seguenti risultati:
4 maschi su 10
si facevano scattare una foto con qualche stratosferica standista (così magari
riuscivano anche ad arpionare per un paio di secondi la signorina, anche
solo con un’accidentale mano sulla spalla…);
5 su 10 dei
fotografi, poi, passavano a farsi fotografare a loro volta;
8 su 10
diramavano nell’aria commenti interessanti e dal significato profondissimo,
come “Và che figaaa!!! Ooooh…!! Per forza il cavaliere ci perde la testa… Ma
come fai a resistere???!!! Beato lui…”.
Già, erano gli
anni dell’implosione del bunga bunga, e l’indignazione maschile in merito era
decisamente palpabile… Una magnifica ossessione. Il corpo delle donne lo
è sempre stato, per gli uomini, laici o ecclesiastici non fa differenza. Amato,
magnificato, abusato nelle guerre, sfruttato come merce di scambio negli affari
tra maschi (e non solo), usato bassamente come sfogo attraverso la
prostituzione, utilizzato per millenni come contenitore della progenie, che
deve essere certa e che porta il cognome del padre; ipercontrollato da sempre
per la sessualità che il maschio vuole libera solo per sé (anche quando si
prostituisce, l’uomo è un gigolo, la donna una puttana, e adesso il
recentissimo termine “escort” designa una prostituta di lusso, lasciando quelle
di strada al loro destino).
“Femmine
seminude e maschi pirateschi. Sono ovunque: prede che s’inarcano e monumenti
muscolari che danno loro la caccia. Al cinema, in televisione, nei fumetti, la
tensione di genere sembra arrivata al massimo. E mentre la rappresentazione
simbolica viene esasperata nell’immagine, nei fatti si ripete una vecchia
storia: le donne continuano a fare da spalla, e a ridere, da anni, alla stessa
barzelletta raccontata dagli uomini”. Paolo Fabbri, semiologo1
Ma come ha
avuto inizio tutto ciò…? Nel tempo, le modalità con cui gli artisti (si può
dire tutti uomini) hanno raffigurato il corpo femminile sono molto eloquenti.
Nel periodo medioevale, la donna rappresentava il peccato. Una miniatura
allegata a una raccolta di salmi, conservata al St. John’s College di
Cambridge, immortala la tentazione di Adamo ed Eva in un serpente-donna che
indossa la cuffia con collaretto di moda alla fine del 1200; queste miniature
erano gli abbecedari su cui i bambini imparavano il latino, e
contemporaneamente la presunta pericolosità delle donne. La Chiesa considerava
gli uomini peccatori perché incapaci di resistere agli impulsi, le donne invece
trasgressive per natura, “…non sono un soggetto peccante ma un modo di
peccare offerto all’uomo…”; le femmine popolavano in maggioranza purgatorio
e inferno nelle raffigurazioni artistiche, in larga parte ecclesiastiche anche
se commissionate da benefattori laici.2 La bellezza femminile
ha sempre avuto un grande peso, nel bene e nel male, in ricchezza e in povertà.
In quel periodo florido che è il 1500 rinascimentale, chiamato così perché
luminoso rispetto all’oscuro medioevo precedente, le donne povere, prive di
cultura ed educazione, se brutte si sposavano miseramente, e vivevano quasi invisibili;
se belle, erano esposte di continuo a potenziali seduttori perché
non protette ed economicamente fragili, e incappavano spesso in gravidanze che
le davano in pasto alla riprovazione pubblica. La bruttezza negava la
femminilità, rendendola neutra e mai rappresentata o narrata, assolutamente
invisibile; l’avvenenza esaltava la cultura di una donna ricca, e le doti che
una povera non aveva, attirava lo sguardo e metteva in moto lo scambio sociale,
consentendo di realizzare scopi prefissati quando le altre forme di azione
culturali, politiche, economiche o giuridiche, erano alle donne precluse o
difficilmente attivabili. “Una volta guardata, la donna può facilmente
parlare”. Nella società rinascimentale, per una domestica,
la prospettiva di una vecchiaia serena o di farsi una famiglia dipendeva dal
suo rapporto con i padroni; una calunnia, un favore o una disgrazia potevano influenzare l’intera esistenza; la bellezza era un espediente per cavarsela,
e coincideva con la dolcezza, con curve soffici e remissività, il che dà l’idea
di come si siano affastellati, nel tempo, i comportamenti di riferimento basici
di una cultura che viene trasmessa per generazioni e vuole la donna sempre a
imbellettarsi, lontana da lavori pesanti o pensanti che comprometterebbero la
sua “femminilità”: la bellezza è vuota, senza raziocinio, perché per pensare
occorre aggrottare la fronte e si diventa brutti.3 Da sempre
l’avvenenza femminile è equiparata nel valore alla bravura maschile; ancora
oggi si sottolinea spesso la bruttezza di una politica o di una scienziata,
qualunque cosa dica o faccia, o per distogliere l’attenzione da ciò che può
fare o dire, come allora si criticava la bruttezza delle donne rivoluzionarie
con la coccarda, in un gioco in cui la bruttezza esclude le donne dalla
comunicazione che inizia con lo scambio di sguardi. Il corpo femminile è sempre
stato strumento del potere maschile. La storia delle donne ignorata da tutti i
libri scolastici non è solo fatta di imperi e dinastie, ma di infanticidi femminili,
di tabù mestruali, di sensi di colpa e obblighi di cui il nostro corpo è stato
imbottito per secoli, un modo per controllare esseri umani considerati
inferiori e SEPARATI, ma che popolavano le cucine e i letti degli uomini,
quindi andavano gestite in qualche modo senza eliminarle: con il
condizionamento culturale, religioso, psicologico, rendendole insicure e
dipendenti.4 Ed è una storia di estrema,
infaticabile resistenza a tutto questo, perché nel complesso, così rinchiuse in
una gabbia impalpabile quanto ferrea, abbiamo comunque lasciato tracce, che
però gli storici hanno ignorato per secoli. Ogni parte del corpo delle donne
era considerato pericoloso: dal 1600 il Talmud ebraico autorizzava l’uomo a
ripudiare la moglie se usciva a capo scoperto5; san Paolo afferma
che le donne senza velo in Chiesa devono radersi a zero6. Molte
culture e religioni sono intessute di un vero e proprio terrore della vagina,
considerata insaziabile: l’uomo entra eretto e ne esce svuotato e floscio, come
svirilizzato, da cui la proibizione di fare sesso prima di un’impresa (concetto
ancora oggi valido nello sport!!!). Tutte le società primitive consideravano le
donne inquinanti durante il periodo mestruale, emarginandole dalla vita del
gruppo: presso i Kafe di Papua Nuova Guinea le ragazze al primo mestruo erano
chiuse in una capanna oscurata e senza cibo per una settimana, perché il loro
sangue avrebbe potuto nuocere alla salute degli uomini, annebbiare l’intelletto
e portare al deperimento7. Nell’ebraismo, i rabbini traevano dai testi
biblici come Il Levitico le istruzioni per trattare le donne IMPURE, cioè
mestruate: il divieto di dormire con lo sposo, mangiare con la famiglia,
stare nella stessa stanza con gli altri, entrare nella sinagoga, toccare il
marito o porgergli qualcosa8. Islam e Cristianesimo utilizzarono a
grandi linee regole simili, solo Maometto tentò di ribaltarle bevendo dalla
stessa coppa della moglie e prendendo dalle sue mani il tappeto di preghiera,
ma il suo atteggiamento fu del tutto ignorato. Il sangue del mestruo, del
parto, della deflorazione, era considerato misterioso e pericolosissimo, e
scatenò un insieme di credenze e consuetudini dure a morire. La vagina era
considerata un “luogo di demoni”:
dall’Antico
Egitto fino ad altri culti ancora esistenti nell’India moderna e in Persia …
ogni vergine prima del matrimonio veniva fatta sedere sul fallo d’oro del dio
sole così da lacerarla e farla sanguinare. Il sangue dell’imene, in altre
circostanze ritenuto immondo, veniva così santificato e nessun giovanotto rispettabile
avrebbe sposato una ragazza che non fosse così stata consacrata.
In molte parti
dell’Oriente le donne erano fatte sverginare dai servi9; in Nord
Europa da zii anziani, dal padre, dal fratello, dal feudatario dello sposo.
Consuetudine abominevole era quella delle spose-bambine: nel 1921 il British
Government Official Census of India registrò la morte, nell’anno
precedente, di oltre tre milioni di bambine, con le seguenti annotazioni dei
medici dell’esercito britannico:
a) Anni 9.
Giorno dopo il matrimonio. Femore sinistro lussato, bacino schiacciato e
deformato. Tessuti a brandelli.
b) Anni 10.
Non riesce a stare in piedi, sanguina copiosamente, tessuti estremamente
lacerati.
c) Anni
9. Stuprata in modo tale da rendere pressoché impossibile qualunque
ricostruzione chirurgica. Il marito aveva altre due mogli viventi e parlava un
ottimo inglese.
d) Anni 7.
Viveva con il marito. Morta tra atroci dolori tre giorni dopo.
e) Circa 10
anni. E’ arrivata trascinandosi su mani e ginocchia all’ospedale. Dal giorno
del matrimonio non è mai più riuscita a stare dritta in piedi.10
Due proverbi
indiani recitano: “Presto sposa e presto morta è il motto delle donne indiane”, e “La vita di una sposa dura due monsoni”. Il fenomeno non è
scomparso: secondo le Nazioni Unite, 400 milioni di donne tra i 20 e i 49 anni
sono state costrette a sposarsi ancora minorenni, con le conseguenti gravidanze
indesiderate e morti precoci del caso; almeno 50 mila mamme tra i 15 e i 19
anni muoiono ogni anno di parto; quasi la metà delle minorenni spose è
concentrata nei paesi del Bangladesh, Nepal, Afghanistan, Pakistan, India (dove
gli aborti selettivi hanno impedito la nascita di 3 milioni di bambine).11 Ma
lo spasso medioevale diventa veramente irresistibile solo quando entra in scena lei,
l’ aggeggino simpatico che ci ha deliziate a lungo… : la cintura di castità.
Arrivata con furore in Occidente grazie alle Crociate in Terra Santa a partire
dall’anno 1000, di ferro o d’argento, era un corsetto saldato alla carne, con
una barra di metallo fra le gambe, e due fessure strette profilate di punte
aguzze che consentivano la fuoriuscita delle deiezioni; essendo impossibile
lavarsi, si restava imbrattate di urina, feci, sangue mestruale. Visto che era
piuttosto complicato anche camminare, la cintura di castità non era di uso
comune e costante, ma aveva altre varianti comunemente vendute nelle fiere nel
1500; scavi in Germania hanno rivelato che molte donne furono sepolte
indossandola12. In Oriente il controllo sessuale esisteva da sempre:
a ogni schiava erano inseriti anelli nelle grandi labbra, per impedire
gravidanze indesiderate o “usi” impropri. Provo a pensarci. Anzi, mi rifiuto,
non riesco nemmeno a immaginarmi con degli anelli a chiudere la biscottina, mi
vengono i sudori freddi. D’altra parte, quante donne patiscono tuttora
l’infibulazione…? Negli harem sudanesi, dopo essere state sverginate dai
padroni, le donne erano protette dalle voglie degli eunuchi con asticelle di
bambù lunghe trenta centimetri, infilate nella vagina e assicurate tramite una
corda alla vita e alle cosce, e uno scudo di paglia a coprire la vulva13.
E’ interessante notare come, da sempre, si ponga rimedio alle voglie maschili
rendendo alle signore la vita impossibile.
Rebecca
Contenuto coperto da copyright
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Le fonti
preziose da cui ho attinto:
1 Lipperini L., Ancora dalla parte delle bambine, Universale Economica Feltrinelli, 2010, p. 30.
2 Frugoni
C., La donna nell’immagine, la donna immaginata, in Duby G.,
Perrot M., Storia delle donne in occidente. Il Medioevo, Editori Laterza, 1990, pp. 433-435
3 Nahoum - Grappe
V., L’estetica: maschera tattica, strategia o identità velata?, in
Duby G., Perrot M., Storia delle donne in occidente. Dal Rinascimento
all’età moderna., Editori Laterza, 1990, pp. 100-117
4 Miles, R., Chi ha cucinato l’ultima cena?, Elliot edizioni, 1988, pp. 158-159.
5 Bermant C., The
Walled Garden. The Saga of Jewish Family Life and Tradition, London,
1974, p. 60, citato da Miles, R., Chi ha cucinato l’ultima
cena?, Elliot edizioni, 1988, p. 160
6 san
Paolo, I Corinzi, 11, 5-6, citato da Miles, R., Chi
ha cucinato l’ultima cena?, Elliot edizioni, 1988, p. 160
7 Miles,
R., Chi ha cucinato l’ultima cena?, op. cit., pp. 164-165
8 Bermant C., The
Walled Garden. The Saga of Jewish Family Life and Tradition, London,
1974, p. 129, citato da Miles, R., Chi ha cucinato l’ultima
cena?, op. cit., p. 166
9 Edwardes A., The Jewel in the Lotus: A
historical survey of the sexual culture in the East, Tandem, 1965, p.
24, citato da Miles, R., Chi ha cucinato l’ultima cena?, op.
cit., p. 168
10 Mayo, K., Mother
India, London 1927, p. 61, citato da Miles, R., Chi ha
cucinato l’ultima cena?, op. cit., p. 171
11 Francesca Paci, Onu, oggi la giornata delle bambine. Basta con le unioni precoci, La Stampa, 11/10/2012
12 de Bourdeille, P., Vies des Dames Galantes, Parsi
1872 (trad, it. Le dame
galanti, Milano 1994),
citato da Miles, R., Chi ha cucinato l’ultima cena?, op. cit.,
p. 174
13 Edwardes A., The Jewel in the Lotus: A historical survey of
the sexual culture in the East, Tandem, 1965, pp. 186-187, citato da
Miles, R., Chi ha cucinato l’ultima cena?, op. cit., p. 174
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