lunedì 22 giugno 2015

Genitorialità acrobatica, senza rete...

Pianeta terra, Italia, in una qualsiasi città, con cappa di smog rigorosamente incorporata e ancora un po’ in sonno, alle sette del mattino. Ufficio di creature umane che stanno lentamente carburando verso il risveglio delle funzioni vitali, il che implica un sovraffollamento cosmico della zona cialde che dispensa l’intruglio nero da cui dipendono ai limiti del tossico novantanove italiani su cento. Eppure qualcuno, oltre a me, sfugge al rito. Cammina avanti e indietro sui tacchi a spillo lungo le pareti della stanza, consentendo all’oggetto più comprato del mondo di diramarle nei padiglioni auricolari la voce di un altro essere, che sento solo vagamente, le cui parole e azioni mi diverto a immaginare, completando un dialogo che lascia poco spazio a dubbi di sorta.
<<… Guarda che quelli gialli sono lì, nel terzo cassetto del comò, ce li ho messi ieri! >>
<< …………………………….>> voce maschile concitata.
Lei: << E vedi di non metterglieli al contrario!! >>
Lui: << ………………………….........>> ululando tipo licantropo.
Lei: << OK. Aspetto in linea…>> senza fare una piega.
L’imprecisato essere all’altro capo del filo inizia, stile Indiana Jones, la perlustrazione della parte più sconosciuta della casa in cui ogni giorno vive da anni, la zona lavanderia, in cui potrebbero ancora essere tenuti crudelmente prigionieri, probabilmente dai fili dello stendibiancheria del nemico, gli oggetti gialli di cui sopra. Dopo tre lunghissimi minuti e trentotto secondi, da me puntualmente cronometrati di nascosto, la splendida conversazione ai limiti dell’horror riprende, con mio grande giubilo.
Lei: << … Ma non è possibile… non possono essere spariti nel nulla… guarda che quelli verdi non vanno bene come colore…>>
Lui: << …………………………………………………..>> sgancia nel telefono la bomba H, sento il fragore e intravedo il fungo.
Lei: << Dio, non sei neanche capace di vestirla con tutta la roba pronta lì sul letto, quella povera bambina……>>
Lui: << …………………………………………………….>> preoccupante silenzio.



Sette secondi, poi l’amorevole dialogo riprende:
Lei: << … E ricordati:  pochissimo zucchero nei cereali!!!!! >> chiude la comunicazione.
Mie elucubrazioni pseudoscientifiche e prostrate sull’accaduto, in libera e caotica successione:
CASO A: lui è un esemplare di maschio del tipo “faccio lo scemo per non andare in guerra”: indipendentemente dal fatto che sappia o meno cavarsela nel lavoro di cura (nessuno l’ha mai iniziato a questa arte oscura sin da piccolo, come invece succede alle femmine), è comunque determinato fino alla morte a dimostrare la più assoluta imbranataggine per sfiancare la femmina sulla lunga distanza e persuaderla, con atteggiamenti inadeguati e snervanti, ad arrangiarsi clamorosamente. Conseguenze: se lei ci casca, assumerà sempre più le sembianze della “schiava Isaura”, perfetta cameriera gratis in casa e procacciatrice di stipendio fuori casa, il secondo sogno di tutti i maschi (dopo la poligamia), praticamente lo stato della maggioranza delle donne italiane sposate con o senza figli, oggi.
CASO B: lui è un esemplare di maschio del tipo “vivo usando il cervello e non solo i privilegi atavici della mia razza”: si rende conto che non ha senso che lei faccia due lavori quando anche lui vive in quella casa e ha generato quei figli, quindi tenta di collaborare, ma forse ha incontrato un esemplare di femmina del tipo “merito di estinguermi ma non succede mai”: strafissata sulle pulizie, invece di usare e vivere la casa ne è soggiogata completamente, perfetta cuoca perché addestrata sin dalla permanenza nel liquido amniotico attraverso la lettura ad alta voce dei libri di Benedetta Parodi, ha lo swiffer a estrazione rapida incorporato nel braccio destro e rifiuta la colf perché non pulirebbe a fondo come lei, quindi non si accontenta di quello che lui tenta di fare neanche se ciò significa sopperirvi personalmente, polverizzando anche i pochi minuti di tempo libero che le resterebbero per sé stessa. Un vero genio, direi…
Ma una via di mezzo non riusciamo proprio a trovarla? Demoralizzata allo stadio terminale,  pilucco una ricerca del 2010 della London School of Economics, che ha passato al setaccio i comportamenti di 12.000 famiglie con figli per un periodo di dieci anni, concludendo che la probabilità di separazione dei coniugi diminuisce se l’uomo svolge uno o più semplici lavori in casa, come pulire o fare la spesa, badare ai pargoli in assenza della madre, metterli a nanna la sera; tradotto, significa che, se fino agli anni ’80 si riteneva che l’impegno delle donne in casa stabilizzasse la famiglia e che il suo lavoro fuori casa aumentasse i divorzi, oggi invece coniugi intercambiabili nel lavoro di cura tengono lontana la separazione, cosa confermata dai nostri tribunali, che separano non tanto per questioni di corna ma per insoddisfazione e infelicità estreme1. A questo punto, come tarantolata, vado a  scartabellare furiosamente nel succulento sito del nostro Istat, e cerco dati sulla situazione odierna: scopro che il livello di attività lavorativa femminile italiano è il più basso d’Europa (escludendo Malta e Turchia), che cresce ma non è accompagnato da un aumento dell’impegno dei maschi nelle faccende di casa; anzi, più aumenta il numero dei figli e più le italiane tendono a lasciare il lavoro retribuito; alla fine degli anni ottanta  l’85% del lavoro di cura era sulle spalle delle donne, oggi è al 75%; una donna in coppia con figli piccoli dedica alla casa 51 ore settimanali, seguita da francesi e americane, contro le 29 ore delle svedesi; i maschi italiani dedicano alla cura meno di 20 ore settimanali, hanno il picco nella fase finale della vita, specie se pensionati e soli, cioè quando non hanno scampo. In quella che viene definita una “rivoluzione sospesa”, i figli in famiglia ricalcano miseramente il comportamento dei padri2. In questo quadretto idilliaco, in cui le donne sostituiscono dalla propria nascita alla morte, senza mai andare in pensione, un welfare deficitario nella cura (anche degli anziani), si parla di aumentare asili o tate, mai di padri più presenti. Aggiungerei un dettaglio finale: ipotizziamo che sul lavoro esca un concorso per fare carriera, e che entrambi i coniugi lo affrontino; lui arriverà a casa dal lavoro e si chiuderà in camera a studiare, lei invece tornerà a casa, passerà il Folletto e poi preparerà la cena. Chi vince il concorso? Inserisco nel dolce quadretto le quote azzurre, incastonate implicitamente nel sistema da millenni, attraverso cui i maschi si assicurano l’un l’altro i posti che contano, e mi spiego perché le stanze dei bottoni continuino a essere frequentate solo da portatori di pisello…

Rebecca

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Le fonti preziose da cui ho attinto:


2 Uso del tempo e ruoli di genere, Istat, 2012, pagg.11-30 (non esistono rilevazioni Istat più recenti)

lunedì 1 giugno 2015

Il maledetto inizio della fine...

Quando entro nell'ufficio dell'Asl non c’è neanche la coda, ho davanti solo una signora con un bambino, poi tocca a me. Mi chiamano pochi minuti dopo, consegno i versamenti per il rinnovo della patente e compilo i moduli, riesco a centrare  la riga della firma anche senza gli occhiali da lettura, odio estrarli dalla tracolla tutte le volte… Poi sala d’attesa, brevissima. Il dottore è giovane e gentile, mi chiede età, peso, altezza e malanni fisici degni di nota. Ci scivolo sopra planando tipo aliante che sfiora sei dirupi cesellati di rocce acuminate come punte di lancia…

“Mah… acciacchi tipo lombosciatalgia, niente di mortale, periartrite alle spalle, cose così…!”

Il dottorino mi squadra. Sento il suo lato sensitivo agitarsi sulla sedia, lui abbozza un sorriso mellifluo, cercando di farmi assorbire il colpo mortale che, nove su dieci, lo sa benissimo, sta per infliggermi…

Non prende nessuna pastiglia fissa giornaliera…???”

Ma girarci attorno almeno un po’, prima di sganciare la bomba H e beccarci inesorabilmente, proprio no…??? Snocciolo nell’aria la parolaccia MICARDIS, attorniata da aggettivi miranti a depotenziare la disgrazia sempiterna che tale termine medico annuncia. Lui prosegue nel tentativo assolutamente senza speranza di indorarmi la fottuta pillola…

“Peccato, ancora abbastanza giovane... come mai ha già la pressione alta…?”

La mia mente è tappezzata di improperi vergognosi e irriferibili, ma mi sgancio e parte un frammento della saga delle mie sfighe familiari; lui chiede se ho il diabete, assolutamente no, e col pensiero mi tocco le tette per scongiurare l’ennesimo lieto evento, chissà perchè ancora mancante alla mia collezione. Poi si alza, sistema la sedia contro il muro e mi invita ad accomodarmici sopra per leggere le famigerate letterine sulla parete. Mi siedo con baldanza, incosciente fino all’ultimo, in quello che ricorderò per sempre come l’ultimo istante di quasi beata innocenza, prima dell’inizio dell’età delle imprecazioni, quelle vere. Il dottore punta il dito su una grossa T, che individuo con facilità nonostante l’occhio sinistro coperto dalla mia stessa mano. Poi passa alla riga inferiore… lettera B…ok… Prima che passi al resto mi rendo conto, in preda a un inizio di panico paralizzante delle principali funzioni vitali, che le lettere inanellate nella riga ancora più sotto sono sfuocate, ammassi di inchiostro nero sgarrupato che compone grovigli tipo lettere dell’alfabeto cinese. Prego Dio che siano realmente una stampata, simpatica variazione sul tema, e non lo scempio che percepisce il mio stramaledetto, vergognoso occhio destro, ma l’illusione dura tre centesimi di secondo. Da lì in poi non ne becco una, al terzo tentativo smetto anche di tirare spudoratamente a indovinare. Il medico mi chiede se non mi ero mai accorta di questo calo di vista, e io con nonchalance accenno agli occhiali che indosso abitualmente per leggere. In realtà, in rari momenti di scomoda onestà assoluta, quella che pungola la coscienza e ti ostini a ignorare  mentre insiste all’inverosimile ad  attanagliarti il cervello, asserragliato oltre il ponte levatoio per non ricevere comunicazioni di sorta, negli ultimi tempi avevo avuto più volte percezioni extrasensoriali strane, quasi esperienze ai confini con l’estremo, di cui non avevo parlato a nessuno per evitare dibattiti pericolosi su argomenti altrettanto letali. Ad esempio, mi ero accorta che, quando mangio, il cibo nel piatto ha spesso un aspetto leggermente indeterminato, dai tratti direi impressionistici, appena accennati, che lasciano un certo spazio all’immaginazione… Sempre facendo finta di niente mi ero scoperta, nel buio dell’anfratto più profondo della mia mente nascosto dall’invadenza del mondo, a formulare considerazioni di alto valore scientifico, come:

“Cavolo, ma non sarà mica che i miei casini con la vista da vicino stanno prendendoci gusto e stanno diventando anche casini da lontano…?!?!”


Intanto, nel maledetto loculo dell’Asl, l’umiliazione cosmica prosegue con l’altro occhio, raggiungendo, se possibile, baratri anche più arditi, fino all’ecatombe finale: per avere il rinnovo della patente devo tornare a fare la visita con gli oc…. con gli occh….. con gli occhial… (non riesco nemmeno a imprimerlo tutto sulla carta perché sarà indelebile). Poi esco, con l’agilità di una lonza a cui hanno appena praticato il trattamento pre-banchetto a cui la stessa parteciperà in posizione orizzontale, su un piatto di portata. La sera, dopo che i miei sentimenti dominanti hanno avuto tempo di sedimentare, raggiungo il livello di calma interiore di Gengis Khan alla vigilia della battaglia decisiva per la conquista della Cina. Prevedo una settimana di acidosi umorale sopra il limite di normale tollerabilità; l’accettazione del malefico MICARDIS, anni prima, aveva comportato svariati sacrifici umani. Questi sono i cambiamenti epocali del mio corpo che mi fanno imbufalire, altroché le dannate rughe…..


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