sabato 7 maggio 2016

Bellezze e dintorni...



Una scritta squarcia lo schermo nero del computer e annuncia che il 60% del pubblico televisivo è costituito da donne. Poi, nel video esplode la musica da discoteca e appaiono gambe nude che si dimenano su alcuni cubi in uno studio televisivo, durante una nota trasmissione che intrattiene tutta la famiglia, la domenica pomeriggio. Sono travolta da venticinque minuti di un collage delle immagini che popolano la nostra cara televisione ogni giorno, a ogni ora, sostanzialmente donne svestite, se mute o parlanti sembra essere secondario. E’ il documentario “Il corpo delle donne” di Lorella Zanardo1. L’autrice sottolinea le immagini con voce asettica che lascia la preminenza alle scene, rivelandone un significato profondo che a quanto pare pochi intravedono, talmente siamo ormai abituati a considerare certe cose “normali”. Prorompono dal monitor donne in perenne lotta contro il tempo, snaturate dalla chirurgia estetica, presenti sul piccolo schermo in quantità ma non in qualità, mai autentiche, ormai lontane anni luce dalla consapevolezza dei propri bisogni veri perché tutte protese a soddisfare i desideri maschili della minoranza che guarda la tv, seminude protagoniste di spot pubblicitari in cui l’oggetto da vendere è destinato alle donne stesse. Anna Magnani soleva raccomandare con la consueta passione al proprio truccatore di non cancellarle le rughe, di lasciargliele tutte, perché ci aveva messo una vita intera a farsele. I volti delle donne di spettacolo contemporanee sono maschere grottesche che hanno perso la loro unicità, in cambio di una perfezione illusoria che però permette loro di entrare nell’unico sistema che pare conti, che dà fama e denaro. Le poche donne adulte che invecchiano sono rappresentate come feroci e si scagliano contro quelle più giovani. In modo subdolo ma costante, si insegna alle donne che apparire è più importante che essere; questo però vale solo per le donne… L’immaginario pornografico maschile ha inquinato ogni forma di linguaggio, il corpo femminile è solo un siparietto estetico che affianca la parola che spetta sempre all’uomo. L’ultima scena è tratta da un programma andato in onda in prima serata, in cui donne seminude appese a corde come prosciutti vengono per gioco marchiate sulle natiche con dell’inchiostro. Rimane incomprensibile che le donne si prestino a tutto ciò. La Zanardo osserva, nel  suo libro:

La colonizzazione del nostro immaginario ha significato non sapere più distinguere i nostri desideri più profondi e oggi ci osserviamo l’un l’altra come pensiamo ci guarderebbe un uomo.2

E’ un rapporto strano, quello degli uomini con il nostro corpo. Un rapporto benedetto e maledetto, che esalta ma ingabbia.  Il grigio sulle tempie invecchia. Una ruga è una ruga. Così dovrebbe essere, invece no. Secondo la cultura dominante che forgia il nostro pensiero quotidiano, le rughe e i capelli “sale e pepe” sono  affascinanti in un uomo, una grana poco accettabile a cui porre rimedio in una donna. L’immensa Barbara Alberti in proposito è implacabile:

E adesso bisogna pure essere fighe fino a ottant’anni. Un’altra corvée. Ma perché? Non facevamo già abbastanza? No. La vecchiaia femminile è stata abrogata. Dal mercato. “la plastica è il nostro burqa”, ha detto il filosofo Gianluca Nicoletti. Appare in televisione una donna politica rifatta da capo a piedi, tacchi sperticati, gambe al vento, seno di fuori, che brandisce come una clava la sua femminilità artefatta. E che sta lì a fare? Pubblicità al suo chirurgo? No, vuole lanciare una crociata per liberare le donne musulmane dal velo. Ehi, ma ti sei vista? Non hai più un centimetro di corpo che sia tuo, vai in giro con una maschera di pelle, hai più extension che peli, e vuoi liberare le altre? E chi libererà te? E’ più costrittiva una maschera di pelle o di stoffa? La plastica è il nostro burqa.3

giovedì 28 gennaio 2016

Capitolo zero

Sono al tuo funerale. Cammino dietro la tua bara lungo la navata centrale della chiesa, qualcuno improvvisamente mi appoggia una mano su una spalla perché sto piangendo a dirotto. E’ la dannata musica tipica delle celebrazioni di commiato, che mi scava dentro. Ma no, magari fosse così…! Sono io la dannata cretina, piango per te.

Fisso un punto fuori del finestrino dell'auto, cerco  di concentrarmici di brutto per non pensare, ma quel riferimento fisico, a cui si arpiona la mia mente disperata, se ne va ogni volta che ci muoviamo. Guardo i passanti attraversare, vorrei che ci fermassero, ci chiedessero qualcosa, qualunque cosa. Lo sapevo che sarebbe successo, succede tutte le volte. Maledetta me che ho messo la gonna, la tua enorme mano destra si insinua sul ginocchio e cerca di risalire lungo la coscia, sguscio via come posso spostandomi sul sedile verso la portiera, ma l’auto è la più piccola del mondo e non c’è abbastanza spazio per scappare.  Tu scherzi, come sempre. Eccome se scherzi, con la voce, con le parole, con le risate… Con la mano invece sei serissimo. E’  l’unica cosa che conta,  eppure tutto il resto narcotizza i sospetti, non puoi fare sul serio, proprio tu e proprio con me. La consapevolezza galleggia attonita in un limbo di incredulità, ignoranza, paura, fiducia, bene, ingenuità maledetta. Se non è niente di grave non è da raccontare, neanche alla maestra a scuola, neanche alla compagna di banco. A nessuno.

Questa volta il finestrino non è più lo stesso, nel frattempo hai cambiato auto. Nessun passante in vista, è una zona industriale. Mi hai accompagnato a casa, è sera tardi e hai fatto il giro lungo… Ti sei ficcato in testa di baciarmi a tutti i costi, allunghi le braccia e mi afferri, mi divincolo e spalanco la portiera, poi scendo e comincio a camminare verso casa. Le  mie parole non sono servite a fermarti, le tue sono meno scherzose di un tempo, ormai tanto non me la bevo, sono passati un po’ di anni. Ho intenzione di andarmene a casa a piedi; quando lo capisci, ci dai un taglio, mi supplichi di risalire e finalmente mi porti a destinazione. E’ finita anche questa volta, fino alla prossima. Fino a quando entrerai in casa mia e mi saluterai abbracciandomi tranquillamente, ma stretto stretto, cercando di sentire il mio corpo, davanti ai miei genitori, a tua moglie, a tuo figlio. Fino a quando non verrai a trovarci cercando di restare solo con me anche  per pochi minuti in una stanza. Fino a quando non ci proverai anche con la mia migliore amica,  per anni. Io e lei non ce lo siamo ancora detto, mai, dopo tanto tempo. E’ anche questo il cemento che fortifica la vigliaccheria subdola dei maiali. E’ la paura di reagire a una cosa NORMALE, a un vero uomo che non se ne lascia scappare una, magari sta solo scherzando… Fino a quando non ti trovi su un’auto ferma sulla corsia di emergenza di un’autostrada, con lui che se lo vuole tirare fuori dai pantaloni e ti dice che “...se cominci poi ti piace!!”.

Adesso sono in giardino, ti sto aiutando a reggere la rete metallica che stai fissando lungo il perimetro della recinzione, sul confine con i vicini. Stabilizzi le viti parlandomi a voce alta, come se niente fosse, come se stessi dicendo cose normali, e io prego che i vicini non siano in casa, che non stiano sentendo, che tu riesca a limitarti a parlare, cerco di stare più distante possibile, la butto sul ridere e ti mando a quel paese. Minimizzo per non andare in pezzi, per non piangere, per fare finta che non sia vero.

E’ lì dentro, sul fondo. Si muove ogni volta che qualcosa la solletica, a quel punto urta gli altri organi, brucia come se una sorta di acido scorresse lentamente lungo i suoi bordi interni. Non va più via. Mai più.  Anzi, in questa ferita ci cade di tutto, dipende dal tuo grado di consapevolezza delle cose, dalla sensibilità, dall’assuefazione a ciò che viene considerato “normale”. NORMALE può essere il sentirsi dare della puttana a letto, essere costrette dal marito a fare sesso, sentirsi passare una mano sul sedere in tram, sedersi vicino a uno che si masturba al cinema, avere un capo che ci prova con il maggior numero di donne possibili perché è il capo, avere un amico che va in Thailandia o in Brasile regolarmente con voli charter a incontrare minorenni e non dirgli nulla, passare la vita con un uomo che tratta la moglie come una proprietà, ricevere uno schiaffo ogni tanto dal fidanzato, avere un uomo che ti RISPETTA a tal punto da concedersi certe cose solo con le prostitute. Ciò che è normale dipende dalla cultura che ci avvolge dalla nascita alla morte. Quella insegnata alle donne è di sopportazione, pazienza, rinuncia. Non capirò mai come sia possibile che  certi maschi, a volte, siano così crudeli con le creature che li mettono al mondo.

Ti sei ammalato gravemente, ancora  abbastanza giovane. Il giorno che l’hai saputo mi hai stretto la mano e l’hai tenuta a lungo ferma nella tua. Per la prima volta non c’era più niente di perverso in quella stretta, solo terrore. E’ per questo che piango al tuo funerale. Noi donne dimentichiamo presto. O forse no. Ciao zio, riposa in pace.



mercoledì 2 dicembre 2015

3) Unga unga ........il ritorno!!!





“La storia, la solenne storia reale, non mi interessa affatto. E a voi?”
“Io adoro la storia!”
“Come vi invidio! Io, per dovere, ne ho letto un po’; ma non ci vedo
niente che o non mi irriti o non mi annoi: litigi di papi e di re, guerre
o pestilenze in ogni pagina. Uomini che non valgono granché e quasi
niente donne - è fastidiosissimo.”

Jane Austen, Northanger Abbey1



Svezia, Barum. Anni ’40 del Novecento. Alcuni contadini trovano nella terra uno scheletro in posizione fetale. Gli antropologi accorrono a frotte, il piatto è ghiotto, l’emozione sempre inebriante come la prima volta. Gli oggetti che lo scheletro ha accanto sembrano un corredo funebre: alcune punte di freccia, una fiocina, una sorta di coltello da pesca. Gli esami li fanno risalire a settemila anni fa. Ci si riferisce con estrema naturalezza allo scheletro come se fosse quello di un uomo, sino a quando esami più approfonditi delle ossa del bacino non rivelano che ha partorito una dozzina di volte. Ops! Anche per uno scienziato deve essere ardua la lotta con l’immaginario collettivo e la cultura in cui tutti galleggiamo (compreso lui), che vuole le armi collegate automaticamente a un portatore di pisello; ma se lo scienziato non vince la lotta con gli stereotipi, le conseguenze possono essere molto poco scientifiche… Ogni volta che per scoprire il passato ci si affida solo a tombe, senza iscrizioni più precise o documenti, e magari non si possono eseguire analisi genetiche per mancanza di fondi, o quando si esamina un’incisione rupestre, a quanto pare si dà generalmente per scontato di trovarsi di fronte a figure maschili, a meno che non siano ben evidenti i triangolini dei seni o della vulva.2 Questo atteggiamento porta a una trascurabile, piccola conseguenza: anche senza prove certe, le azioni vengono attribuite sempre ai maschi. Ad esempio, il simbolo delle corna bovine è sempre associato al toro anche quando è la vacca ad essere sacra, come nella zona delle Alpi.3 Cavolo, stento a crederci… Il carro romano a due ruote rinvenuto accanto a un maschio fa generalmente di lui un grande comandante; in una tomba femminile, invece, evidenzia senz’altro la condizione di matrona e le funzioni di madre, anche se il contesto non c’entra con i romani e le matrone non esistevano; uno scudo di bronzo è segno di combattimenti per un uomo, segno di rango per una donna.4 Ne risulta una Storia scritta dai maschi, con occhi maschili e metodi non sempre obiettivi, una storia che da sempre considera basilari i grandi eventi e trascura il lato umano, le masse, le emozioni, la vita semplice di tutti i giorni e i risvolti del quotidiano. E le donne? Quasi assenti dai documenti ufficiali, occorre scovarle in una storia parallela, quella di chi non aveva gli onori ma molti oneri, di chi custodiva la memoria e la tramandava magari raccontando o cantando, di chi teneva in vita i segreti della natura e le tecniche più antiche, di chi faceva la psicologa o l’erborista ogni giorno senza saperlo. Sarebbe bello guardare con occhi nuovi la vita dei popoli, le mentalità che cambiano, le sensibilità che influenzano le culture. L’evoluzione non è solo fatta di uomini famosi, ma della mentalità della gente comune, e si può studiare non solo focalizzandosi sui grandi eventi, ma su lunghissimi periodi temporali più sfumati e sovrapposti, in cui anche la cooperazione, e non solo la competizione, ha consentito alla razza umana di progredire. Questo significa intrecciare i sentimenti e il vissuto delle persone con le variabili economiche, sociali e culturali, e ottenere NOI UMANI. Significa scrutare dentro archivi giudiziari e notarili, ma anche tra corrispondenze epistolari private e diari, cerimonie e modi di parlare, autobiografie e biografie.5 Si chiama antropologia storica, e per fortuna è operativa da tempo. Anche la stessa storiografia si è data impulsi nuovi; d’altra parte, come tutte le scienze, è tale proprio perché si smentisce e si perfeziona, e oggi non crediamo più che la terra sia piatta: negli anni ’60 del novecento, attiviste studiose come Joan Kelly e Gerde Lerner hanno inaugurato le ricerche di studiose e studiosi, incarnate in centinaia di lavori (tra cui le ricerche del medioevalista Georges Duby), che hanno consegnato un risultato certo: le differenze in base a ceto sociale, epoca storica e nazione, valide per i maschi, non hanno pesato sulle donne così tanto come per gli uomini; ha inciso molto di più “l’essere di  sesso femminile”, non importa dove e quando.

Non vi è stato Rinascimento per le donne o, almeno, non durante il Rinascimento6 


Un destino comune, specie per le donne d’Europa, che voleva dire contare qualcosa (ed essere tracciate su un documento di rilevanza storica) solo in quanto mogli, madri, figlie o sorelle di un certo maschio; che voleva dire svolgere da sempre un doppio lavoro rispetto ai maschi ( sottostimato, dentro o fuori casa che fosse); un destino comune che significava essere  circondate sempre, regine o schiave, da una visione negativa che le voleva inferiori per natura, e che le influenzava profondamente al ribasso nei sogni anche più teorici, figuriamoci nelle loro realizzazioni.

martedì 29 settembre 2015

Inesorabile destino di una "gran gnocca", e del suo contrario...


“Il corpo faccia quello che vuole. Io non sono il corpo, io sono la mente.”  Rita Levi Montalcini



Normalissima, di statura stancamente media, senza slanci di particolare pregio estetico. Se paragonata a quella fanciulla  lunga 1.80 andando approssimativamente per difetto, dagli occhi blu e i capelli neri (connubio a dir poco letale), allora la situazione precipita e raggiungo un’infima posizione di classifica, con vuoti incolmabili anche con l’intervento di sette chirurghi plastici in associazione a delinquere… Giornata durissima, quasi da pianificazione del suicidio, se possibile indolore. E’ successo alcuni anni fa e porto ancora le ferite dentro. Come utente di sesso femminile in visita ero decisamente una minoranza oppressa, spersa tra tutti quegli uomini accorsi nella stanza giochi dei maschi tra le più affollate del mondo, il Salone Internazionale della Moto di Milano, l’idea peggiore in merito a tempo libero e curiosità varie che mi sia balenata in mente negli ultimi dieci anni.  Ovunque, attorno, esemplari di femmine di somma bellezza, corpi scultorei sormontati da visi perfetti e avvolti in mise decisamente minime: gonne ascellari, corpetti trasparenti, tacchi superlativi e instabilissimi. La più cospicua adunata di “gran gnocche” cosmiche nel giro di diecimila miglia. Non tutte erano italiane; mi chiedevo con quali sogni fossero approdate in Italia, quante magari fossero laureate, cosa avessero in quelle belle testoline (non credo affatto che le belle donne siano sempre oche come recita lo stereotipo); mi domandavo anche se mai qualcuno si fosse preoccupato di esplorarle, quelle testoline. L’essere così belle è una grande fortuna; nessuno riesce a evitare di essere affascinato da un bell’aspetto, maschile o femminile che sia; poi, però, dopo il mancamento estatico di alcuni secondi dovuto alla visione paradisiaca,  la reazione mentale  si dirama in variegati rivoli psicologici che di positivo hanno spesso poco, tra cui spicca una clamorosa invidia; qualunque cosa quella donna otterrà, la nostra mente sarà portata a collegarla solo ed esclusivamente alla sua carrozzeria superlativa;  difficilmente saremo disposti a verificare se la persona è veramente una rovinosa, insignificante sbatticiglia, oppure ha anche altre doti che la rendono competente per quel certo posto; ho sentito maschi lamentarsi per il presunto trattamento di favore riservato a candidate femmine a causa di doti fisiche che loro stessi, in qualunque altro frangente, avrebbero tenuto per primi in somma considerazione (chi di spada ferisce, di spada perisce…?). So che a prima vista sembra impossibile, ma facendo uno sforzo di ragionamento sovrumano, concluderei che la bellezza può a volte essere un fardello scomodo, per una donna che ha anche altre doti e magari non vuole fare per forza la modella. E se il bellone di turno è un maschio? Gli uomini più difficilmente sono colpiti da invidia verso un altro uomo, addestrati come sono sin da piccoli a puntare su altre doti per farsi strada nella vita. 
E le donne brutte? Beh, qui il quadro è facile, disadorno, addirittura miseramente scarno: le brutte spesso sono condannate a non essere filate di pezza neanche se geniali; riescono a farsi notare qualche volta, dopo performance degne di un oscar, soltanto quelle estremamente simpatiche, oppure quelle che si danno fuoco, come diceva la Littizzetto. 
Aggirandomi tra gli stand del salone, a un certo punto ho cominciato ad osservare anche l’altra metà del cielo: gli uomini.

sabato 22 agosto 2015

2) Unga unga...!!!







  

Posso tranquillamente dire che non cè una sola sottana in tutta la storia.

Rider Haggard, Le miniere di re Salomone, 1886

Lucy inizia presto, finisce tardi e di solito pulisce anche il water, se solo ce ne fosse uno; invece non c’è nemmeno l’antenato della turca, ci si limita ad accovacciarsi dietro un albero, possibilmente a una prudenziale distanza dalla casa, che non è una caverna (in genere usata per le attività di culto), ma una capanna, o una tenda di pelli protesa su ossa di mammut, qualche volta una base di pietra avvolta da tronchi incrociati.1 Nel Pleistocene, cioè più o meno 42 mila anni fa, le agenzie immobiliari non erano ancora in voga. Nemmeno la colf. Lucy, che è la discendente del primo essere umano  (quella Lucy nera i cui resti sono stati rinvenuti in Etiopia e fatti risalire a 4 milioni di anni fa),  molto raramente vive oltre i trent’anni2 (a meno che l’analisi scientifica dei resti fossili non abbia cannato clamorosamente). E’ piuttosto impegnata: cucina i semi, le radici e la frutta che ha raccolto, e le piccole prede che ha catturato, magari con l’uso di trappole; usa pelli di animali per confezionare abiti, fionde e recipienti, costruisce ripari permanenti o momentanei, fabbrica spatole di pietra per raschiare le pelli (poi essiccate e ammorbidite con grasso animale), forgia lame affilate per tagliare i tendini degli animali e usarli per allacciare gli indumenti attraverso rudimentali fori, maneggia erbe e piante per curare e cicatrizzare; alleva i piccoli, curando il loro corpo e sviluppando il loro quoziente intellettivo, a quel tempo sempre più evoluto rispetto a quello dei primati. L’apporto delle donne all’evoluzione umana è quotidiano, costante, fecondo di risultati sul lungo periodo, e magnificamente sottovalutato dagli storici; meno dagli antropologi, abituati a concentrarsi su tempi storici più dilatati e ad analizzare anche i piccoli eventi della vita della maggioranza della popolazione, non solo i grandi avvenimenti concretizzati magari da pochi leader.3  C’è il rischio che Lucy abbia inventato anche l’agricoltura: raccogliendo il cibo, sviluppa capacità di osservazione, valutazione e memoria che le consentono di scegliere e ricordare le varietà di frutta, verdure e tuberi a seconda della stagione e del tipo di pianta; accorgendosi che i resti del pasto germinano e danno frutti, impara a piantarli in luoghi memorizzati, che può ritrovare quando ritorna con la tribù dalla migrazione stagionale (il che comporta capacità di pensiero astratto per considerare un evento passato e poi uno futuro, senza il supporto di teorie precedenti). Ma il grande balzo avviene quando scopre che può cuocere i cibi; così facendo contribuisce ad alzare la vita media di una ventina di anni, tenendo al riparo i suoi cari da disturbi gastrici e infezioni causate dagli alimenti crudi, responsabili anche della precoce caduta dei denti. Lucy sa anche cucire; era lei la sicura colpevole, gli aghi di osso erano troppo piccoli per poter essere agevolmente maneggiati da mani maschili nella lavorazione delle pelli, e del successivo tessuto4; in quel freddo glaciale, non si poteva certo girare nudi. Ho l’atroce sospetto che Lucy abbia avuto anche molti buoni motivi per mettere lo zampino nello sviluppo del linguaggio: distinguere una bacca velenosa da una commestibile poteva essere assolutamente cruciale, importante quanto riuscire a renderlo noto anche ad altre donne, nel corso della giornata di lavoro. I maschi parlavano molto meno, spesso costretti a non fare rumore durante gli appostamenti della caccia, in cui erano necessarie forza e furbizia. Nelle 175 civiltà di cacciatori-raccoglitori in Africa, America, Oceania e Asia esaminate dagli antropologi, nel 97% dei casi l’attività venatoria era affare maschile.

lunedì 13 luglio 2015

Perdere l'anima

Il sangue è ancora caldo, di odore acre e di un rosso cupo, le impregna i capelli e le scende lungo il collo, sulle spalle, lungo il resto del corpo. La capra e la gallina sono morte quasi subito; la ragazza tiene gli occhi chiusi per difendersi, si barrica dietro le palpebre,  ma è difficile restare intatta, anche attraverso gli occhi chiusi le si insinua nel cervello l’immagine di quella stanza adorna di stoffe bianche e rosse in cui l’hanno portata, le statuine del jujù a braccarla tutte intorno, giù in fondo allo stomaco una soggezione sorda verso l’uomo che sta danzando attorno a lei, che la rende totalmente inerme. Barcolla, la tunica bianca che le ricopre il corpo nudo è sempre più imbrattata di sangue, le pareti della stanza le incombono addosso, ruotano inesorabilmente non appena socchiude gli occhi; ha ancora in bocca il gusto penetrante di alcool e della noce di cola, l'intruglio con cui ha dovuto trangugiare il cuore della gallina. L'uomo è il native doctor, nome elegante di uno degli stregoni di Uwasota, Benin City, Nigeria. Il vecchio pratica il rito dell’Ayelala, una divinità considerata dispensatrice di giustizia e custode della moralità. Le fa giurare solennemente obbedienza, la pena è la sua stessa vita. Si deve fare prima di partire, glielo ha detto Mama Brady. Il vecchio ripete ossessivamente formule antichissime, e minacce di morte. Le asporta un ciuffo di capelli, dei peli pubici, parti di unghie delle mani e dei piedi. Ormai sono suoi, come la sua anima.


La chiamerò Zemira. Seduta sull’autobus, guarda la terra della Nigeria, che vende le sue figlie ogni giorno, scorrere fuori dal finestrino. Viaggia da più di due ore, poche, nell’economia del lunghissimo viaggio che le cambierà la vita per sempre. Mama Brady le ha chiesto alcune foto per il passaporto, ma lei non l’ha visto, e non lo vedrà mai. Piccola e minuta, un viso dolcissimo, ventidue anni, la scuola secondaria interrotta per la morte del padre, una madre che di tanto in tanto vende biscotti e caramelle per la strada, in alcune ceste sull’onnipresente, polveroso sterrato che affianca l’asfalto delle vie dell’Africa. Zemira ha imparato ad acconciare i capelli; Mama Brady, una delle clienti abituali del negozio, le ha proposto un lavoro di parrucchiera in Italia. La metterà in contatto con una parente a Torino; Susan, così si chiama, dovrà essere pagata, ovvio; la cifra in naira, la moneta nigeriana, è accettabile; Zemira non sa che fa da paravento alla somma reale, sessanta mila euro, una cifra elevata, commisurata alla sua bellezza. Quando arriva a Kono, nel nord, al confine con il Niger, è il 17 luglio.

lunedì 6 luglio 2015

1) Piccoli uomini crescono

Immancabilmente strafiga, inguainata in uno stratosferico abito da fata, la ragazza è accanto a una rana verdastra dallo sguardo languido, in cui è stato imprigionato da un mago cattivo l’uomo di cui si innamorerà. Questo allegro quadretto campeggia sulla locandina del film d’animazione che intendo regalare in DVD al mio nipotino, uno dei pochi cartoni che ancora mancano alla sua personale  cineteca di tipico bimbo di cinque anni straviziato da noi adulti, come tutti i cuccioli di essere umano che si rispettino in questo nostro simpatico, ultra consumistico emisfero occidentale. Il film si intitola  La principessa e il ranocchio, marca Disney e anno di uscita 2009, la trama sembra contenere un personaggio femminile diverso dalla solita bambola inerme in balia del superattivismo dell’onnipotente maschio di turno. Prendo il DVD dallo scaffale e lo mostro al delizioso pargolo, almeno questa volta riuscirò anch'io a vedere un cartone animato nuovo… La reazione del trottolino di mamma è da non credere…:
<< No, quello no…..!! E’ da femmine!>>
La femmina che lo guarda sgusciare via rimane col negletto DVD in mano, ed è del tutto simile alla femmina che lo ha partorito con un dolore a cui nessun maschio sarebbe mai sopravvissuto, in genere cappottano alla prima linea di febbre. Dopo lo shock anafilattico iniziale, ora sto rielaborando il lutto,  perché di questo si tratta.  Quando un bambino che va ancora alla scuola materna ti considera inferiore a lui, la sensazione di inadeguatezza che ti investe anche solo per un attimo è profondamente avvilente. A quell’età non possiede la struttura psicofisica necessaria a sentirsi superiore intellettualmente o fisicamente, il che significa che in qualche modo qualcuno o qualcosa gli ha inculcato il concetto e ora lui lo indossa  con assoluta, agghiacciante naturalezza,  a  soli cinque anni. Ma il peggio, ci scommetto, deve ancora venire. Devo scoprirlo subito, non resisto. Devo sapere al più presto cosa avverrà il prossimo anno, quando il futuro Terminator varcherà la soglia di un’aula scolastica, dove voglio pensare che sarà non solo informato su mille meraviglie ancora sconosciute, ma soprattutto FORMATO nell’intelletto e nel carattere, perché questo dovrebbe fare la scuola elementare. Tarantolata da un furore mistico, il giorno dopo piombo in ufficio e assalto le mie colleghe che hanno figli in età scolare. Nel giro di due giorni ottengo in prestito i libri su cui la loro deliziosa progenie ha studiato l’anno precedente. Il primo è un libro di lettura di prima elementare:  comitato editoriale di donne in redazione e direzione, ambo i sessi a curare il progetto grafico.

lunedì 22 giugno 2015

Genitorialità acrobatica, senza rete...

Pianeta terra, Italia, in una qualsiasi città, con cappa di smog rigorosamente incorporata e ancora un po’ in sonno, alle sette del mattino. Ufficio di creature umane che stanno lentamente carburando verso il risveglio delle funzioni vitali, il che implica un sovraffollamento cosmico della zona cialde che dispensa l’intruglio nero da cui dipendono ai limiti del tossico novantanove italiani su cento. Eppure qualcuno, oltre a me, sfugge al rito. Cammina avanti e indietro sui tacchi a spillo lungo le pareti della stanza, consentendo all’oggetto più comprato del mondo di diramarle nei padiglioni auricolari la voce di un altro essere, che sento solo vagamente, le cui parole e azioni mi diverto a immaginare, completando un dialogo che lascia poco spazio a dubbi di sorta.
<<… Guarda che quelli gialli sono lì, nel terzo cassetto del comò, ce li ho messi ieri! >>
<< …………………………….>> voce maschile concitata.
Lei: << E vedi di non metterglieli al contrario!! >>
Lui: << ………………………….........>> ululando tipo licantropo.
Lei: << OK. Aspetto in linea…>> senza fare una piega.
L’imprecisato essere all’altro capo del filo inizia, stile Indiana Jones, la perlustrazione della parte più sconosciuta della casa in cui ogni giorno vive da anni, la zona lavanderia, in cui potrebbero ancora essere tenuti crudelmente prigionieri, probabilmente dai fili dello stendibiancheria del nemico, gli oggetti gialli di cui sopra. Dopo tre lunghissimi minuti e trentotto secondi, da me puntualmente cronometrati di nascosto, la splendida conversazione ai limiti dell’horror riprende, con mio grande giubilo.
Lei: << … Ma non è possibile… non possono essere spariti nel nulla… guarda che quelli verdi non vanno bene come colore…>>
Lui: << …………………………………………………..>> sgancia nel telefono la bomba H, sento il fragore e intravedo il fungo.
Lei: << Dio, non sei neanche capace di vestirla con tutta la roba pronta lì sul letto, quella povera bambina……>>
Lui: << …………………………………………………….>> preoccupante silenzio.



Sette secondi, poi l’amorevole dialogo riprende:
Lei: << … E ricordati:  pochissimo zucchero nei cereali!!!!! >> chiude la comunicazione.
Mie elucubrazioni pseudoscientifiche e prostrate sull’accaduto, in libera e caotica successione:
CASO A: lui è un esemplare di maschio del tipo “faccio lo scemo per non andare in guerra”: indipendentemente dal fatto che sappia o meno cavarsela nel lavoro di cura (nessuno l’ha mai iniziato a questa arte oscura sin da piccolo, come invece succede alle femmine), è comunque determinato fino alla morte a dimostrare la più assoluta imbranataggine per sfiancare la femmina sulla lunga distanza e persuaderla, con atteggiamenti inadeguati e snervanti, ad arrangiarsi clamorosamente. Conseguenze: se lei ci casca, assumerà sempre più le sembianze della “schiava Isaura”, perfetta cameriera gratis in casa e procacciatrice di stipendio fuori casa, il secondo sogno di tutti i maschi (dopo la poligamia), praticamente lo stato della maggioranza delle donne italiane sposate con o senza figli, oggi.
CASO B: lui è un esemplare di maschio del tipo “vivo usando il cervello e non solo i privilegi atavici della mia razza”: si rende conto che non ha senso che lei faccia due lavori quando anche lui vive in quella casa e ha generato quei figli, quindi tenta di collaborare, ma forse ha incontrato un esemplare di femmina del tipo “merito di estinguermi ma non succede mai”: strafissata sulle pulizie, invece di usare e vivere la casa ne è soggiogata completamente, perfetta cuoca perché addestrata sin dalla permanenza nel liquido amniotico attraverso la lettura ad alta voce dei libri di Benedetta Parodi, ha lo swiffer a estrazione rapida incorporato nel braccio destro e rifiuta la colf perché non pulirebbe a fondo come lei, quindi non si accontenta di quello che lui tenta di fare neanche se ciò significa sopperirvi personalmente, polverizzando anche i pochi minuti di tempo libero che le resterebbero per sé stessa. Un vero genio, direi…
Ma una via di mezzo non riusciamo proprio a trovarla? Demoralizzata allo stadio terminale,  pilucco una ricerca del 2010 della London School of Economics, che ha passato al setaccio i comportamenti di 12.000 famiglie con figli per un periodo di dieci anni, concludendo che la probabilità di separazione dei coniugi diminuisce se l’uomo svolge uno o più semplici lavori in casa, come pulire o fare la spesa, badare ai pargoli in assenza della madre, metterli a nanna la sera; tradotto, significa che, se fino agli anni ’80 si riteneva che l’impegno delle donne in casa stabilizzasse la famiglia e che il suo lavoro fuori casa aumentasse i divorzi, oggi invece coniugi intercambiabili nel lavoro di cura tengono lontana la separazione, cosa confermata dai nostri tribunali, che separano non tanto per questioni di corna ma per insoddisfazione e infelicità estreme1. A questo punto, come tarantolata, vado a  scartabellare furiosamente nel succulento sito del nostro Istat, e cerco dati sulla situazione odierna: scopro che il livello di attività lavorativa femminile italiano è il più basso d’Europa (escludendo Malta e Turchia), che cresce ma non è accompagnato da un aumento dell’impegno dei maschi nelle faccende di casa; anzi, più aumenta il numero dei figli e più le italiane tendono a lasciare il lavoro retribuito; alla fine degli anni ottanta  l’85% del lavoro di cura era sulle spalle delle donne, oggi è al 75%; una donna in coppia con figli piccoli dedica alla casa 51 ore settimanali, seguita da francesi e americane, contro le 29 ore delle svedesi; i maschi italiani dedicano alla cura meno di 20 ore settimanali, hanno il picco nella fase finale della vita, specie se pensionati e soli, cioè quando non hanno scampo. In quella che viene definita una “rivoluzione sospesa”, i figli in famiglia ricalcano miseramente il comportamento dei padri2. In questo quadretto idilliaco, in cui le donne sostituiscono dalla propria nascita alla morte, senza mai andare in pensione, un welfare deficitario nella cura (anche degli anziani), si parla di aumentare asili o tate, mai di padri più presenti. Aggiungerei un dettaglio finale: ipotizziamo che sul lavoro esca un concorso per fare carriera, e che entrambi i coniugi lo affrontino; lui arriverà a casa dal lavoro e si chiuderà in camera a studiare, lei invece tornerà a casa, passerà il Folletto e poi preparerà la cena. Chi vince il concorso? Inserisco nel dolce quadretto le quote azzurre, incastonate implicitamente nel sistema da millenni, attraverso cui i maschi si assicurano l’un l’altro i posti che contano, e mi spiego perché le stanze dei bottoni continuino a essere frequentate solo da portatori di pisello…

Rebecca

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Le fonti preziose da cui ho attinto:


2 Uso del tempo e ruoli di genere, Istat, 2012, pagg.11-30 (non esistono rilevazioni Istat più recenti)

lunedì 1 giugno 2015

Il maledetto inizio della fine...

Quando entro nell'ufficio dell'Asl non c’è neanche la coda, ho davanti solo una signora con un bambino, poi tocca a me. Mi chiamano pochi minuti dopo, consegno i versamenti per il rinnovo della patente e compilo i moduli, riesco a centrare  la riga della firma anche senza gli occhiali da lettura, odio estrarli dalla tracolla tutte le volte… Poi sala d’attesa, brevissima. Il dottore è giovane e gentile, mi chiede età, peso, altezza e malanni fisici degni di nota. Ci scivolo sopra planando tipo aliante che sfiora sei dirupi cesellati di rocce acuminate come punte di lancia…

“Mah… acciacchi tipo lombosciatalgia, niente di mortale, periartrite alle spalle, cose così…!”

Il dottorino mi squadra. Sento il suo lato sensitivo agitarsi sulla sedia, lui abbozza un sorriso mellifluo, cercando di farmi assorbire il colpo mortale che, nove su dieci, lo sa benissimo, sta per infliggermi…

Non prende nessuna pastiglia fissa giornaliera…???”

Ma girarci attorno almeno un po’, prima di sganciare la bomba H e beccarci inesorabilmente, proprio no…??? Snocciolo nell’aria la parolaccia MICARDIS, attorniata da aggettivi miranti a depotenziare la disgrazia sempiterna che tale termine medico annuncia. Lui prosegue nel tentativo assolutamente senza speranza di indorarmi la fottuta pillola…

“Peccato, ancora abbastanza giovane... come mai ha già la pressione alta…?”

La mia mente è tappezzata di improperi vergognosi e irriferibili, ma mi sgancio e parte un frammento della saga delle mie sfighe familiari; lui chiede se ho il diabete, assolutamente no, e col pensiero mi tocco le tette per scongiurare l’ennesimo lieto evento, chissà perchè ancora mancante alla mia collezione. Poi si alza, sistema la sedia contro il muro e mi invita ad accomodarmici sopra per leggere le famigerate letterine sulla parete. Mi siedo con baldanza, incosciente fino all’ultimo, in quello che ricorderò per sempre come l’ultimo istante di quasi beata innocenza, prima dell’inizio dell’età delle imprecazioni, quelle vere. Il dottore punta il dito su una grossa T, che individuo con facilità nonostante l’occhio sinistro coperto dalla mia stessa mano. Poi passa alla riga inferiore… lettera B…ok… Prima che passi al resto mi rendo conto, in preda a un inizio di panico paralizzante delle principali funzioni vitali, che le lettere inanellate nella riga ancora più sotto sono sfuocate, ammassi di inchiostro nero sgarrupato che compone grovigli tipo lettere dell’alfabeto cinese. Prego Dio che siano realmente una stampata, simpatica variazione sul tema, e non lo scempio che percepisce il mio stramaledetto, vergognoso occhio destro, ma l’illusione dura tre centesimi di secondo. Da lì in poi non ne becco una, al terzo tentativo smetto anche di tirare spudoratamente a indovinare. Il medico mi chiede se non mi ero mai accorta di questo calo di vista, e io con nonchalance accenno agli occhiali che indosso abitualmente per leggere. In realtà, in rari momenti di scomoda onestà assoluta, quella che pungola la coscienza e ti ostini a ignorare  mentre insiste all’inverosimile ad  attanagliarti il cervello, asserragliato oltre il ponte levatoio per non ricevere comunicazioni di sorta, negli ultimi tempi avevo avuto più volte percezioni extrasensoriali strane, quasi esperienze ai confini con l’estremo, di cui non avevo parlato a nessuno per evitare dibattiti pericolosi su argomenti altrettanto letali. Ad esempio, mi ero accorta che, quando mangio, il cibo nel piatto ha spesso un aspetto leggermente indeterminato, dai tratti direi impressionistici, appena accennati, che lasciano un certo spazio all’immaginazione… Sempre facendo finta di niente mi ero scoperta, nel buio dell’anfratto più profondo della mia mente nascosto dall’invadenza del mondo, a formulare considerazioni di alto valore scientifico, come:

“Cavolo, ma non sarà mica che i miei casini con la vista da vicino stanno prendendoci gusto e stanno diventando anche casini da lontano…?!?!”


Intanto, nel maledetto loculo dell’Asl, l’umiliazione cosmica prosegue con l’altro occhio, raggiungendo, se possibile, baratri anche più arditi, fino all’ecatombe finale: per avere il rinnovo della patente devo tornare a fare la visita con gli oc…. con gli occh….. con gli occhial… (non riesco nemmeno a imprimerlo tutto sulla carta perché sarà indelebile). Poi esco, con l’agilità di una lonza a cui hanno appena praticato il trattamento pre-banchetto a cui la stessa parteciperà in posizione orizzontale, su un piatto di portata. La sera, dopo che i miei sentimenti dominanti hanno avuto tempo di sedimentare, raggiungo il livello di calma interiore di Gengis Khan alla vigilia della battaglia decisiva per la conquista della Cina. Prevedo una settimana di acidosi umorale sopra il limite di normale tollerabilità; l’accettazione del malefico MICARDIS, anni prima, aveva comportato svariati sacrifici umani. Questi sono i cambiamenti epocali del mio corpo che mi fanno imbufalire, altroché le dannate rughe…..


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